Federico Maggiulli
propone caffè speciali
nella sua caffetteria
milanese in un quartiere residenziale: un passo indispensabile
per diffondere
“il verbo”.
Ormai è relativamente facile trovare una caffetteria che vende caffè speciali nel centro delle città italiane, Milano in primis. Nelle zone frequentate da turisti, americani prima di tutto, sempre alla ricerca di uno specialty. Le periferie, le zone residenziali, restano il regno incontrastato del bar all’italiana, del caffè unico, del macchiato caldo o freddo e così sia. Ma perché la Third Wave arrivi finalmente nel nostro Paese, i caffè speciali devono arrivare anche al consumatore medio, di quartiere, non necessariamente a quello chic ed evoluto che ha studiato a Londra o lavorato a New York.
Tarda mattinata di fine febbraio in una Milano che in centro appare vagamente spettrale, ma in semiperiferia sembra quella di sempre. I milanesi un po’ snob lo sanno, e anche gli agenti immobiliari: esiste uno spartiacque, una linea che divide ciò che potremmo chiamare “il centro allargato” e le periferie. Questa linea è la circonvallazione dei filobus 90-91. Una linea immaginaria ma molto reale che al momento nessuno tra quella manciata di caffetterie specialty milanesi ha mai oltrepassato. È con grande curiosità dunque che ci dirigiamo verso Il Cafetero, la “creatura” aperta lo scorso settembre da Federico Maggiulli, barman leccese che lo scorso settembre ha aperto un bar (anche) specialty in via Rembrandt, zona ovest, Municipio 7 secondo la divisione amministrativa.
Pareti bianche e bancone lungo, qualche tavolino, durante la nostra visita passano la mamma con la bambina in vacanza forzata dalla scuola materna, un americano con la barba da hipster con l’amica italiana, alcuni lavoratori, commercianti e anziani del quartiere. Ordinano espressi, macchiati, cappuccini.
Sulle lavagne dentro e fuori dal bar si parla invece di Specialty, Flat White, monorigini – termini che probabilmente da queste parti in pochi hanno sentito o saprebbero spiegare – e di Brasile, Etiopia, Honduras, Costa Rica, Kenya, nomi più usuali in un’agenzia di viaggi che in un bar. Federico appena entrati offre un bicchierino d’acqua aromatizzata al limone “perché pulisce la bocca e fa percepire meglio gli aromi del caffè”. I caffè sono quelli della milanese 7 gr e in particolare di Lot Zero, la linea di Chiara Bergonzi.
Che idea, una caffetteria specialty in periferia, come è nata?
Vengo dal mondo dei drink, ci ho lavorato dieci anni. A un certo punto mi sono trasferito a Londra per imparare l’inglese e approfondire la scena della mixology in quella città. E lì ho scoperto i primi coffee shop. Era il 2010, li frequentavo, vedevo i filtrati, non capivo ancora, ma è stata una rivelazione. Tornato in Italia, nel 2014 mi sono trasferito a Milano e ho conosciuto Chiara Bergonzi che ai tempi collaborava con Cofficina, Ho cominciato a fare corsi, mi ha aperto un mondo. Dopo fiere, eventi, altri corsi sono arrivato qui, ho deciso di aprire una caffetteria. Lavoravo in un bar tradizionale, ho saputo da un rappresentante che qui c’era un’opportunità e mi sono buttato. Non ho azzardato ad aprire una caffetteria specialty pura, ma ho pensato a una caffetteria che avesse di tutto.
Che tipo di gente viene qui?
È una bar di quartiere come hai visto, la maggior parte della gente entra e chiede un espresso. Qualche turista c’è grazie agli Airbnb di zona che hanno un po’ cambiato la geografia dell’ospitalità. Sto lavorando con i social per portarli qui e qualcuno è arrivato. Ma soprattutto sono clienti molto locali, sono legato alla associazione del quartiere.
Cosa proponi ai clienti?
Dipende da come si presentano, se penso che potrebbero essere interessati a uno specialty glie lo propongono. Parto con la miscela 70 Arabica -30 Robusta, se già iniziano a discriminare tra una miscela più dolce o più intensa è già una grande cosa, un grande passo avanti. Io mi sgolo e faccio una campagna ogni giorno contro lo zucchero nel caffè, contro i caffè ristretti, contro i caffè lunghi, contro i caffè marocchini. L’americano con l’acqua ormai sanno che qui non me lo possono neanche nominare. Ho la macchina del vero caffè americano, una Bravilor. E ogni tanto qualcuno preso dalla moda dei telefilm americani abbandona l’espresso e prende la tazza da asporto.
Stai subendo la crisi da coronavirus?
Io non tanto, questi giorni ho chiuso alle 18 invece che alle 19. non propongo aperitivi se me lo chiedono li faccio ma non voglio mischiare le cose, fare una campagna come la faccio per il caffè. Essendo una zona molto residenziale la gente resta qua a casa. Ultimamente ho attivato la consegna a domicilio e molti ordinano cappuccini o caffè e brioche, mi sono attrezzato con portatazze e sacchetti.
Progetti futuri?
Molto ambiziosi, sto trattando per comprare un piccola piantagione in Colombia. E voglio aprire altre caffetterie. Per il mio primo locale su Milano non avevo un grande budget, il prossimo negozio sarà più centrale.
Ma a noi che le periferie le frequentiamo, l’idea della specialty coffehouse di quartiere piace assai. E tifiamo perché si diffonda, a Milano e altrove.
Anna Muzio
Giornalista
Da vent’anni scrivo nell’incrocio tra turismo, food e attualità per testate di settore e non.
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