Il Paese sudamericano incastrato tra il Pacifico, le Ande e l’Amazzonia produce caffè di altissima qualità. Ma in giro per la capitale Quito è davvero difficile trovare una buona tazzina
Quito è una città sorridente anche se con denti poco passabili per gli standard europei, vociante, carica di smog e di profumi. Ha le montagne che incombono e un traffico intasato come le arterie di uno che mangia burro a colazione, pranzo e cena. Gli ecuatoriani (e non ecuadoregni, parola che ci siamo inventati noi italiani con un bizzarro calco esotico) vivono questo caos vitalissimo con grande flemma anche se amano considerare lo stress come uno dei principali mali da guarire con le tante erbe mischiate e vendute nelle erboristerie che praticano la “medicina acestral” e che sono a ogni angolo.
Sarà per questo che il caffè – la nostra pillola elettrizzante pluriquotidiana – qui a cavallo dell’Equatore e a 2800 metri sul livello del mare non è facile da consumate. L’Ecuador è un discreto produttore, con circa 640mila sacchi all’anno, molto lontano da giganti come Brasile, Vietnam ma anche dai vicini Colombia e Perù. Le sue aree produttive sono nella Cordillera Costanera, nelle zone collinari di Manabi, in quelle di altura di Loja e Zamora Chinchipe, e perfino nelle incredibili Galàpagos, Ma non sono i numeri a colpire, bensì la qualità media del prodotto, per circa due terzi composto da Arabica, a cui il fatto di essere coltivata all’ombra dei banani dona caratteristiche organolettiche uniche.
Il laboratorio del Cafè Apolo
Eppure gli ecuatoriani sono bevitori di caffè distratti, preferendo succhi di esoticissimi frutti come la Guanabana e la Naranjilla, oppure infusi di foglie di vario genere (tra cui la coca). In un nostro breve giro nello stordente centro di Quito, tra Plaza Grande e Plaza San Francisco, in una passeggiata ricavata durante un breve soggiorno che non aveva il caffè tra i suoi focus, abbiamo trovato pochissime caffetterie. Una che ci era stata segnalata in Benalcazar sembrava promettente ma alla fine è risultata chiusa (ed erano le 5 di pomeriggio di un brulicante venerdì). Così siamo entrati al Cafè Apolo, all’incrocio tra le strade Rocafuerte e Cuenca. Qui abbiamo trovato Enrique, un giovane “cafetero” venezuelano venuto a cercare fortuna nella capitale ecuatoriana, che ci ha preparato con cura, dopo averlo “molido” (ovvero macinato), un espresso elegante e molto meno bruciato di quello a cui siamo abituati noi italiani. Enrique ci ha chiesto per quella tazzina griffata Starbucks (mah) due dollari americani, che sono la valuta locale e che non sono affatto poco in un Paese in cui lo stipendio medio è sui 500 dollari (ma forse ha annusato lo straniero da spennare). Malgrado il prezzo abbiamo fatto i nostri complimenti a Enrique, che ci ha spiegato che si trattava di una varietà “Selecto”, quella di migliore qualità, un cento per cento di Arabica coltivata a circa 1200 metri sul livello del mare da “manos campesinas” in “parroquias” come Arenal, Ciano, Vicentino, Alamor nel “cantón” Puyango della provincia di Loja, nel Sud del Paese.
Quando abbiamo chiesto a Enrique come gli ecuatoriani bevono il caffè mi ha risposto: “Espresso!”. Poi ha aggiunto: “Americano tambièn” e mi ha mostrato una macchina con la brocca da diner newyorkese. Almeno qui evitano ai clienti lo scempio di un espresso allungato con acqua calda come accade da noi.
Un bell’incontro. Resta la strana impressione di un locale piccolo ma vuoto, una capsula di quiete dentro un barrio che, là fuori, vibra di urla e persone. Forse davvero in Ecuador come in gran parte dei Paesi che lo producono, il caffè, anche quello di più alta qualità strappato alla terra con rabbia e amore, è uno sfizio da “gringos”.
Andrea Cuomo
Giornalista
Inviato del Giornale e collaboratore di diversi periodici nel settore wine&food
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