Tarantino, Hitchcock, Jarmush. Ma anche Godard, Malle, Lynch e l'”amerikano” Leone. Tanti i registi per cui il caffè è diventato simbolo e snodo narrativo
Cinema e caffè, un rapporto solido. Non siamo i primi e non saremo gli ultimi a raccontare quante volte la tazzina (e la tazzona) abbia fatto capolino sul grande schermo, ma questo non ci ha trattenuto dal fare un giro di orizzonte che immaginiamo definitivo (si scherza ma nemmeno tanto). Abbiamo dedicato la prima puntata ai molti film italiani in cui il caffè svolge un ruolo da protagonista. In questa seconda parte parliamo dei film stranieri che hanno fatto lo stesso.
A partire da Notorious di Alfred Hitchcock (1946), in cui la spia interpretata da Claude Rains cerca di liberarsi della moglie “agentessa segreta” (Ingrid Bergman) avvelenandole di continuo il caffè. Manco a dirlo sarà salvata dal suo amante, Cary Grant. E c’è un caffè al veleno anche in Confessioni di una mente pericolosa di George Clooney (2003), anche se con esiti cinematografici meno siderali. Il caffè (da asporto) apre Colazione da Tiffany (Blake Edwards, 1961). È nelle mani di Audrey Hepburn, che sorseggiandolo sbircia le vetrine della celebre gioielleria. Una New York mai così bella, una Hepburn mai così affascinante, la più seducente (e scomoda) breakfast della storia del cinema.
C’è molta Italia in C’era una volta in America di Sergio Leone, film del 1984 in cui il regista romano, che si trova a dirigere un cast stellare, sceglie una tazza – e il cucchiaino che gira tintinnando per un minuto nel silenzio generale – come pretesto narrativo per alimentare la tensione e far intuire le intenzioni del protagonista, il malavitoso chic Noodles, un magnifico Robert De Niro. Massimo risultato espressivo con il minimo sforzo verbale.
Anche i western hanno spesso utilizzato il caffè come artificio narrativo. John Ford vi fa ricorso sia in Ombre rosse (capolavoro del genere) sia un Un dollaro d’onore e in entrambi i casi il protagonista è John Wayne, che nel primo caso se ne serve per smaltire una sbornia.
Caffè d’autore e quindi inevitabilmente enigmatico quello di David Lynch che in Mulholland Drive (2001), in cui un personaggio minore beve un caffè e poi disgustato lo rigetta su un tovagliolo, episodio che fa scavallare la scena dalla modalità inquietudine alla modalità violenza. Capite perché il caffè deve essere buono? Ah, il caffè compare spesso nei film di Quentin Tarantino. In Pulp Fiction (1994) molte scene sono ambientate in un diner di quelli in cui la cameriera annoiata gira con la caraffa piena di liquido nero che versa nelle tazze dei clienti. E in molte scene ci sono personaggi con tazze in mano da John Travolta allo stesso regista autoimmortalatosi in un cammeo. E in Kill Bill vol. 1 Beatrix Kiddo viene uccisa (temporaneamente) mentre sorseggia un caffè “creamy and sugar”. Ah, lei è naturalmente la divina Uma Thurman.
Dall’alto: Robert De Niro in “C’era una volta in America” di Sergio Leone; Roberto Benigni in “Coffee and Cigarettes” di Jim Jarmush; la distopica scena dell’espresso in “Mulholland Drive” di David Lynch; John Travolta e Samuel L. Jackson in “Pulp Fiction” di Quentin Tarantino
In Balla coi lupi (1990), esordio alla regia di Kevin Costner, un macinino da caffè e la successiva offerta della bevanda diventa lo strumento con cui il tenente John Dunbar, interpretato dallo stesso Costner, conquista la fiducia di una comprensibilmente diffidente tribù di pellerossa.
Per finire con gli Usa non si può non citare Coffee and Cigarettes di Jim Jarmush in cui i due “vizi”, ritenuti spesso fratelli, sono i veri protagonisti di un film a episodi, off e slabbrato ma spesso divertente, in cui compare anche (in bianco e nero) Roberto Benigni.
C’è tanto “café” anche nel cinema francese. Con Louis Malle che nel 1963 in Fuoco fatuo ambienta un una caffè (l’Odéon) una delle scene più angoscianti per il protagonista Alain (Maurice Ronet) sempre sull’orlo del suicidio. Con Jean-Luc Godard che in Due o tre cose che so di lei (1967), elegge in una scena apodittica una tazzina di caffè a simbolo esistenziale dell’abitudine e della quotidianità. A risollevarci l’umore arriva la deliziosa Amélie (Audrey Tautou) de Il favoloso mondo di Amélie (2001) di Jean-Pierre Jeunet, che in un bar ci lavora.
Infine il tedesco Bagdad Cafè (1987), di Percy Adlon, in cui un favolistico bar sperduto nel deserto del Mojave diventa luogo di rinascita per la protagonista Jasmin, interpretata da Marianne Sägebrecht. Il film è famoso soprattutto per la romantica canzone Calling you che fa da colonna sonora e che all’epoca ebbe grande successo. Certamente più del film.
Andrea Cuomo
Giornalista
Inviato del Giornale e collaboratore di diversi periodici nel settore wine&food
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